A metà 2019 molte persone comuni hanno sentito per la prima volta parlare di BCI, Brain Computer Interface ("Interfaccia cervello-computer" in italiano). È successo quando Elon Musk, ormai famosissimo imprenditore a capo della casa automobilistica Tesla e ideatore, tra le altre cose, di PayPal, ha presentato i primi risultati degli studi sulle BCI condotti da una delle sue società, Neuralink: un sistema basato su elettrodi da impiantare nel cervello per creare, appunto, una interfaccia cervello-computer.
Ma la scienza lavora alle BCI da quasi quarant'anni e di BCI già pronte e funzionanti ce ne sono diverse, anche se non sono così sofisticate come quella di Elon Musk. Ma cosa è, in pratica, una Brain Computer Interface? E perché sta assumendo un'importanza sempre crescente? Scopriamolo insieme.
BCI, cosa sono
Sotto l'acronimo di BCI vengono racchiuse diverse tecnologie che permettono ad un computer di "leggere nel pensiero". Cioè di tradurre in input per il calcolatore gli impulsi elettrici trasmessi dai neuroni di un cervello umano. Lo scopo principale per il quale sono state sviluppate le BCI è quello di permettere ai disabili gravi di comunicare con il mondo esterno o di recuperare parte delle normali funzionalità del corpo. La stessa Neuralink di Musk afferma che il suo scopo è proprio questo: permettere a chi è paralizzato di muovere un arto "bypassando" il danno neuronale che impedisce al suo cervello di comunicare con una parte del suo corpo.
Solitamente una BCI funziona in tre step: cattura e digitalizzazione del segnale cerebrale, elaborazione delle informazioni ed esecuzione del comando richiesto dal cervello. Ognuna di queste tre fasi può essere svolta in modi diversi, ma nella seconda entra sempre in gioco un bel po' di matematica e qualche algoritmo di intelligenza artificiale e/o di machine learning.
Brain Computer Inferface: facciamo un esempio
A parte la futuristica BCI di Elon Musk, che ancora non c'è se non allo stadio sperimentale, di interfacce cervello-computer che funzionano davvero ce ne sono più di una. Di sicuro, in televisione o al cinema, avrete visto almeno una volta quelle complesse macchine che permettono ai malati gravi di sclerosi laterale amiotrofica (SLA, chiamata anche malattia di Lou Gehrig) che sono ormai praticamente immobili, di comunicare con gli altri "dettando" alcune parole con il cervello. Queste macchine si basano sull'elettroencefalografia (EEG), cioè captano l'attività elettrica del cervello e la traducono in lettere, che vengono poi scritte su uno schermo.
Tra queste macchine, ad esempio, ci sono gli "speller steady-state visual evoked potential" (SSVEP), in grado di interpretare fino a 40 caratteri diversi registrando le frequenze comprese tra 8 Hz e 15,8 Hz, con incrementi di 0,2 Hz. Il malato legge su uno schermo la lettera che vuole dettare alla macchina, il cervello produce di conseguenza una attività elettrica che causa una frequenza, che viene captata dallo SSVEP, che la riconosce e l'associa alla giusta lettera per poi, in seguito, seguendo il precorso inverso, riuscire a mostrarla a video.
Le ultime evoluzioni di questa tecnologia usano il machine learning per interpretare meglio e più velocemente l'attività cerebrale e dare un risultato più veloce e più preciso.
Hackerare un cervello?
Tutto questo è molto bello ed è qualcosa che ci fa capire quanto la scienza e la tecnologia possano davvero rendere migliore la vita di tutti, al di là degli smartphone, delle smart TV, della domotica e dell'intrattenimento digitale. Ma, allo stesso tempo, ci costringono a chiederci quanto siano sicure queste macchine. In altre parole: è possibile hackerare una BCI? E, se lo è, cosa si rischia?
La risposta alla prima domanda, purtroppo, è sì: è possibile hackerare una interfaccia cervello-computer, è stato dimostrato da alcuni scienziati cinesi che hanno pubblicato un paper dal titolo "Tiny Noise Can Make an EEG-Based Brain-Computer Interface Speller Output Anything", un piccolo rumore elettromagnetico può modificare l'output di uno speller (ovvero il "traduttore" di impulsi neurali in lettere) basato su elettroencefalografia.
Secondo questi scienziati è possibile introdurre delle leggerissime perturbazioni, che non vengono riconosciute come un errore dalla macchina ma, al contrario, vengono interpretate come un segnale corretto e, per tanto, processate dall'algoritmo di intelligenza artificiale della BCI. In tal modo, di fatto, è possibile hackerare una BCI facendo credere che il malato abbia dettato alla macchina cose diverse da quelle che ha pensato realmente. Il "giochetto" funziona sia con le BCI di tipo P300 che con i già citati SSVEP.
I ricercatori, però, precisano che il loro studio non intende denigrare l'efficacia e l'utilità delle BCI ma, al contrario, mettere in luce i loro punti deboli affinché siano superati: "Vogliamo sottolineare che l'obiettivo di questo studio non è quello di danneggiare i sistemi BCI basati su EEG, ma di dimostrare che sono possibili gravi attacchi verso queste macchine. Nella nostra ricerca futura, prevediamo di sviluppare strategie per difenderci da tali attacchi. Nel frattempo, speriamo che il nostro studio possa attirare più attenzione dei ricercatori sulla sicurezza delle BCI basate su EEG".