Potremmo definirla “Sindrome da truffa dietro l’angolo”. La vita ci ha insegnato che tutto ha un costo e quasi nulla ci viene donato o regalato. E ogni volta che sentiamo la parola gratis, ci viene subito il dubbio. Una domanda che in molti si porranno ogni volta che si trovano a scaricare dall’App Store o dal Play Store un’app gratuita. Come ad esempio WhatsApp, l’ormai famosissimo software di messaggistica istantanea che permette di inviare messaggi gratuiti tramite un normale smartphone connesso ad Internet.
Dubbio legittimo, ma che per Whatsapp fino a qualche settimana fa aveva una risposta univoca. “WhatsApp è totalmente gratuito e potrai inviare quanti messaggi gratis vorrai, anche all’estero. Non si paga assolutamente nulla”. Un’asserzione valida fino a gennaio 2013, quando i soli utenti Android hanno visto comparire una notifica nella schermata principale dell’app, che li informava della fine del periodo di prova gratuita. In cambio, la nuova versione (la 2.9.378 rilasciata nel Paly Store di Google il 22 gennaio 2013) chiede il pagamento di un canone annuo di 0,79 euro. Pena la sospensione del servizio.
Sul web si è scatenato un clima da caccia alle streghe: chi giurava di voler boicottare l’applicazione, chi promuoveva una sommossa popolare, chi prometteva di rivolgersi all’avvocato di fiducia. Proteste e lamentele sono arrivate fino allo store di Google, dove gli utenti hanno lasciato commenti non proprio lusinghieri verso la startup creata da Acton e Koum, due ex-programmatori di Yahoo. La compagnia si difende dicendo che le condizioni non sono state modificate e che il canone d’utilizzo era già previsto da tempo. E probabilmente ha ragione: semplicemente, molti utenti stanno terminando il loro anno di prova gratuita e credono che la società californiana li voglia raggirare, senza pensare che per 79 centesimi di euro, una cifra irrisoria, possono inviare appena 6 sms (messaggio più o messaggio meno a secondo della tariffa applicata dal proprio gestore di telefonia mobile). Per controllare lo stato del vostro account, basterà andare su Impostazioni > Informazioni account > Informazioni sul pagamento e scoprirete quando scadrà il vostro periodo di prova.
Comunque, in molti stanno già setacciando la rete alla ricerca di alternative valide e gratuite a Whatsapp. Da popolo di tifosi quale siamo, i transfughi di Whatsapp si stanno equamente dividendo tra Viber e WeChat, l’alternativa cinese che spopola nei Paesi del sud-est asiatico.
Ma Whatsapp non è l’unica società a comportarsi così. Quella appena descritta è una tattica commerciale ben collaudata. Rendi una persona dipendente da un servizio lanciato gratuitamente, per poi imporgli una tariffa o un costo di utilizzo. Una tattica che molte aziende sono costrette ad applicare quando gli introiti pubblicitari non riescono a coprire le spese.
Come YouTube, il celebre social network video che sembra essere stata contagiata dalla febbre dei contenuti a pagamento. In questi giorni si è diffusa la notizia che alcuni canali dovrebbero diventare a pagamento, con un canone mensile che si aggirerebbe tra 1 e 5 dollari. Poco male, dato che tutti gli altri servizi resterebbero gratuiti. Youtube diverrebbe a tutti gli effetti un servizio freemium: ovvero un servizio composto da due parti. La prima, gratuita, accessibile a tutti gli utenti iscritti, mentre la seconda, a pagamento, accessibile solo agli utenti premium.
Questo modello economico, che molti considerano come il futuro per la Rete, tra non molto potrebbe essere applicato anche ai social network più famosi. Come Facebook e Twitter. Avremmo così dei social a doppio binario: a parità di contenuto avremmo, da un lato, la versione premium senza pubblicità, dall’altra, una versione gratuita piena zeppa di annunci pubblicitari.
E voi, sareste disposti a pagare per scrivere il vostro cinguettio quotidiano o per lanciare un poke ai vostri amici del cuore?
1 febbraio 2013