Complice la rete e le telecomunicazioni digitali, la quantità di dati prodotta e scambiata cresce in maniera esponenziale. Una tendenza che interessa (e preoccupa) non solo chi si occupa di ideare e progettare le Reti del futuro, ma anche chi si occupa di archiviazione dati. Le informazioni, infatti, non sono solo scambiate attraverso le dorsali oceaniche e le reti telematiche, ma devono anche essere archiviate in supporti di memoria capienti, capaci di offrire ottime prestazioni in lettura e scrittura, e, soprattutto, affidabili. Il transito dei dati attraverso i nodi della Rete, infatti, sarebbe fine a sé stesso se non ci fossero data center, server e hard drive all'interno dei quali salvarli.
Le tecnologie per l'archiviazione dei dati
Ad oggi, i supporti di archiviazione di massa possono essere raggruppati in due grandi famiglie: gli hard disk magnetici e i dischi a stato solido (SSD).
Nel primo caso, i dati sono scritti da testine motorizzate su dischi magnetici divisi in piccolissime sezioni chiamate "celle". Ogni cella di memoria può contenere un bit di informazione e può assumere due valori alternativi: "1" o "0" (ovvero "acceso" o "spento"oppure "vero" o "falso"). Questa tipologia di hard drive è caratterizzata da una grande capacità di archiviazione – un disco rigido magnetico può contenere diversi terabyte di dati – e buona affidabilità, ma presenta alcuni punti deboli legati alla natura meccanica del suo funzionamento. All'interno dell'hard disk trova spazio un piccolo motorino elettrico che muove dischi e testina: la lettura e scrittura dei dati sono molto più lente rispetto al funzionamento di altre componenti elettroniche del PC (come processore e memoria RAM, ad esempio) inoltre le parti meccaniche del disco rigido sono soggette a usura.
I dischi SSD, invece, non hanno bisogno di parti meccaniche per la conservazione delle informazioni ma, come accade nelle memorie RAM, trasformano i dati in piccole cariche elettriche "archiviate" all'interno di una matrice di semiconduttori. Ciò permette di velocizzare le operazioni di lettura e scrittura dei dati e, avvicinandosi alle velocità operative di CPU e RAM, migliorano le prestazioni generali del computer. Gli hard drive a stato solido, però, sono più costosi rispetto a un hard disk magnetico e un'aspettativa di "vita" inferiore.
Alla scoperta dell'ibrido
Entrambe le tecnologie, insomma, presentano dei punti deboli che mettono costantemente a rischio le informazioni "affidategli" dagli utenti. Per questo motivo alcuni gruppi di ricerca vogliono creare un hard rive "ibrido" capace di unire la capacità di memoria dei dischi magnetici con la velocità di accesso dei dischi a stato solido.
Un esempio è dato dalle memorie Racetrack, ideate dal team di ricerca guidato da Stuart Parkin all'interno dei laboratori "Almaden Research Center" a San Jose, California (Stati Uniti). Queste memorie sono basate su nanotubi di materiale magnetico (grandi poco più di un millesimo di un capello umano) poggiati su un transistor in silicone. Nelle memorie racetrack i dati sono archiviati nei nanotubi, mentre il transistor funge da testina di scrittura e lettura: sfruttando lo spin di un flusso di corrente appositamente modulato, i ricercatori dell'IBM sono in grado di far muovere i bit lungo il nanotubo con grande precisione e ad alta velocità. In questo modo l'affidabilità dei materiali magnetici è coniugata alla velocità tipica delle componenti informatiche elettroniche.
Così come configurata nei laboratori californiani della IBM, la memoria racetrack è tridimensionale (l'archiviazione dei dati si sviluppa non solo sulle due dimensioni tipiche di un disco magnetico "piatto", ma anche sulla "verticalità" dei nanotubi magnetici) e costituita da una "giungla" di "grattacieli" magnetici le cui fondamenta poggiano su una solida base di silicio.
A tempo di musica
La memoria racetrack, però, non è esente da difetti. Generare dei campi magnetici con flussi di corrente porta, allo stesso tempo, alla generazione di calore. Un effetto "indesiderato" che, pur non avendo grande influenza sulle prestazioni della memoria, causa un'usura precoce dei semiconduttori e dei nanotubi in silicio che la compongono.
Per evitare che ciò accada, due gruppi di ricerca britannici (appartenenti all'Università di Southampton e all'Università di Leeds) ha messo a punto una memoria racetrack basata su nanotubi magnetici sensibili alle vibrazioni poggiati su transistor con cristalli piezoelettrici. Fornendo una piccola carica elettrica, i cristalli piezoelettrici iniziano a vibrare, generando onde sonore dette onde acustiche di superficie. In questo ambito i ricercatori britannici hanno individuato due onde sonore fondamentali: un'onda sonora, più intensa, fa muovere i bit archiviati sul nanotubo magnetico verso la testina, mentre una seconda onda, meno intensa della prima, li fa "tornare indietro". In questo modo è possibile azionare le memorie utilizzando la sola forza del suono. Al momento, i ricercatori sono stati in grado di muovere dati alla velocità di circa 160 chilometri orari, ma stimano che, "a regime", le informazioni contenute nelle memorie racetrack piezoelettriche possano spostarsi superando anche i 1.000 chilometri orari.
L'utilizzo delle onde sonore di superficie, inoltre, permette di rendere molto più lento il fenomeno del dissipamento dell'energia tipico dei sistemi elettromagnetici tradizionali: ciò vuol dire che le memorie racetrack piezoelettriche consumano poco pur essendo in grado di generare onde sonore capaci di propagarsi per diversi centimetri. Se si tiene conto che i nanotubi magnetici sono lunghi qualche frazione di millimetro, si capisce che una singola onda sonora può essere utilizzata per "mettere in moto" diversi chip di memoria abbassando ulteriormente la richiesta di energia necessaria per il funzionamento di questi particolari hard drive.