In attesa che i progressi dell'informatica quantistica rendano replicabile su ampia scala il teletrasporto dei dati, il mezzo più veloce per inviare informazioni e navigare in Rete resta la fibra ottica. Teorizzata da Archimede qualche migliaio di anni fa, la fibra consente di raggiungere velocità di connessione elevatissime (almeno per gli standard attuali), bassa latenza e, quindi, lag quasi completamente assente.
Questi ottimi risultati si ottengono nonostante la trasmissione dei dati all'interno del mezzo ottico non sia propriamente ottimizzata. Ad esempio, per massimizzare la resa delle dorsali di fibra, all'interno di ogni cavo vengono fatti "passare" più fasci laser con la stessa lunghezza d'onda ma differente angolazione. Questa accorgimento permette di aumentare la larghezza di banda disponibile per l'invio dei dati, ma ha la "controindicazione" di creare un po' di caos (interferenze tra i vari fasci luminosi) all'interno della dorsale, con il rischio che una parte delle comunicazioni vada persa.
Un problema a cui molti scienziati e ricercatori hanno tentato di trovare una soluzione senza andare a incidere negativamente sull'ampiezza della banda passante. Tra questi, troviamo anche un team di ricerca del dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano che, con il suo pettine per la luce, sembra aver trovato letteralmente il bandolo della matassa. Ma procediamo con ordine.
Come funziona la fibra ottica con più fasci laser
Come accennato prima, per ottimizzare le prestazioni della fibra ottica e mantenere una velocità connessione sempre elevata viene impiegato lo stratagemma di sparare più fasci laser all'interno di un singolo cavo. Questo, a lungo andare, può portare al "mescolamento" dei fotoni dei vari fasci, con la conseguente perdita di dati e informazioni. Fino a oggi il problema era aggirato convertendo il segnale ottico in digitale e ricomponendo il "messaggio" bit dopo bit utilizzando processori e computer ultraveloci.
Una soluzione che, in qualche modo, finisce per creare un piccolo collo di bottiglia che va a influire negativamente sulla velocità di navigazione finale degli utenti. Affinché sia possibile navigare al massimo della velocità, dunque, è necessario eliminare questo passaggio intermedio.
Il pettine della luce
È a questo punto che entra in scena la soluzione tecnologica proposta dagli scienziati del Politecnico di Milano. Da un punto di vista prettamente fisico, si tratta di un chip grande circa 1 millimetro quadrato sul quale trova spazio una griglia di combinatori ottici (beam combiner in inglese) il cui scopo è di "trattare" i fasci di luce laser presenti all'interno del singolo cavo di fibra ottica. Selezionato dalla Optical Society of America come uno dei 30 lavori di maggiore rilevanza nel campo dell'ottica nel 2017, il chip è frutto della collaborazione dell'università meneghina con gli scienziati di Stanford, che per primi ne avevano teorizzato il funzionamento.
Da un punto di vista funzionale, invece, potremmo definire l'invenzione dei ricercatori del Politecnico di Milano come un pettine per fasci luminosi incrociati (o ingrovigliati, se si vuole mantenere l'analogia con il pettine) che si occupa di setacciare i vari fasci di luce laser e dividerli l'uno dell'altro, senza che ci sia bisogno della conversione in digitale e successiva "riorganizzazione" tramite computer. Merito di ricettori luminosi trasparenti, capaci di seguire il "cammino" seguito da ogni fascio di luce e monitorarlo costantemente, e di algoritmi di intelligenza artificiale che gestiscono l'intero processo in autonomia e senza che sia necessario l'intervento di altri dispositivi informatici o controllori umani.
Possibili applicazioni oltre la fibra ottica
Un'invenzione di questo genere può trovare utilizzo non solo nel campo delle telecomunicazioni e della navigazione Internet. I chip fotonici, ad esempio, sono una delle tante alternative ai chip in silicio che, a causa dei limiti della Legge di Moore, sembrano avere i "giorni contati": se il pettine dei fasci laser fosse utilizzato anche sui chip fotonici, si potrebbe espandere il flusso dei dati che passano attraverso il processore e aumentarne così in maniera esponenziale la capacità di calcolo.
La scoperta del team italiano potrebbe anche potenziare le reti neurali, creando collegamenti iperveloci tra i vari "neuroni elettronici" e consentendo di creare processori dal funzionamento sempre più simile a quello del cervello umano. Per non parlare, infine, dei benefici che il chip che "pettina la luce" potrebbe apportare al mondo dell'informatica quantistica e allo sviluppo dei computer quantici. Lo stato di indeterminazione che caratterizza i qubit, infatti, potrebbe essere reso meno "incerto" dall'utilizzo di chip e dispositivi analoghi al pettine realizzato dagli studiosi italiani. Ciò consentirebbe di impiegare più qubit per il calcolo e l'esecuzione di istruzioni e meno per compiti di controllo e verifica delle operazioni appena compiute: un passo in avanti significativo, rispetto agli attuali standard dell'informatica quantistica.