Che il mondo dell'informatica, da qualche anno a questa parte, si stia avvicinando a un bivio è un fatto risaputo. La Legge di Moore sembra sempre più prossima a essere confutata e i processi produttivi dei chip si avvicinano al limite fisico (poco al di sotto dei 10 nanometri per ogni singolo transistor): si corre il rischio di non riuscire più a produrre dei processori – o chip di qualunque genere – che riescano a garantire un continuo sviluppo tecnologico così come accaduto negli ultimi decenni.
Ciò spinge diversi istituti di ricerca in tutto il mondo a portare avanti progetti legati all'impiego di tecnologie – e materiali – differenti rispetto a quelli attuali. Oltre ai nanotubi in carbonio e al grafene, alcuni gruppi di ricerca si stanno concentrando su chip che sfruttano il calore per la trasmissione dei dati e delle informazioni anziché i "soliti" elettroni. Sono i cosiddetti diodi termici, sviluppati nella prima metà della seconda decade di questo secolo nei laboratori del Cnr in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa.
Partendo dalle stesse basi teoriche – quelle della caloritronica – un gruppo di ricercatori della University of Nebraska-Lincoln (Stati Uniti) ha realizzato un processore termico capace di lavorare anche a temperature altissime. L'obiettivo è sviluppare dei chip – e dei computer – in grado di lavorare in ambienti poco ospitali come i crateri vulcanici o pianeti più vicini al Sole, come Venere o Mercurio.
Come funziona il diodo termico della University of Nebraska-Lincoln
Il diodo messo a punto dal team di ricerca statunitense si compone di due elementi: uno fisso e uno mobile, che può avvicinarsi o allontanarsi dal suo "compagno". Il movimento è gestito in maniera automatica dal sistema informatico, così da massimizzare lo scambio di calore tra le due parti: quando la parte mobile sarà più calda di quella fissa, si muoverà verso di lei così da riscaldarla; al contrario la parte mobile si allontanerà. Modulando il calore a seconda delle necessità, è possibile far crescere o diminuire la capacità del processore termico di elaborare dati e informazioni.
Le differenze con il diodo termico del Cnr e della Normale di Pisa
Al di là della sua "conformazione", il diodo termico dell'università statunitense si differenzia da quello del Cnr e della Normale di Pisa anche e soprattutto per il suo funzionamento. Mentre il dispositivo italiano funziona a temperature prossime allo 0 assoluto (più o meno 270° centigradi sotto zero), quello statunitense è più adatto per lavorare a temperature oltre i 100° centigradi. Nei primi test condotti nei laboratori statunitensi, i ricercatori si sono spinti fino ai 250° centigradi, ma, secondo gli ingegneri che lo hanno sviluppato. non dovrebbe avere difficoltà a salire di almeno altri 100° centigradi. Con ulteriori migliorie e perfezionamenti, il diodo potrebbe riuscire a operare anche a temperature di circa 700° centigradi, senza rischio di fusioni e malfunzionamenti.
Possibili utilizzi del diodo termico della University of Nebraska-Lincoln
Vista la resistenza alle alte temperature, il diodo potrebbe trovare impiego in numerosi settori. Uno dei più immediati è l'analisi e la gestione dei big data, operazione che solitamente richiede una grande potenza di calcolo e da sempre limitata dai problemi di dissipazione del calore che affliggono le "normali" CPU elettroniche. Gli utilizzi del processore termico, però, potrebbero essere ben altri: dall'esplorazione spaziale (varie agenzie stanno valutando la possibilità di inviare sonde verso Venere, dove le temperature atmosferiche sono elevate) all'analisi della lava e del magma, sino ad arrivare all'estrazione del petrolio.