Cybersquatting, domain grabbing e domain squatting. Tre parole poco note al grande pubblico, tre sinonimi che stanno a identificare un atto di pirateria informatica penalmente perseguito dalla giurisdizione internazionale. Italia compresa.
Cos’è il cybersquatting
Il termine prende origine dalla parola inglese squatting, che vuol dire occupare. In particolare, questo verbo si riferisce alle occupazioni di immobili o aree ormai inutilizzate senza autorizzazione e senza pagamento di alcun affitto. Traslato in ambito informatico, il termine assume una connotazione similare. Sta a indicare, infatti, l’occupazione di spazi virtuali, ossia domini web, presenti nell’immaginario comune ma non utilizzati da quelli che potrebbero essere i legittimi proprietari.
Il cybersquatting consiste nel registrare domini web riconducibili a marchi noti e coperti da copyright o a personaggi pubblici con lo scopo palese di ricavarne un vantaggio economico. In termini esemplificativi, se un utente registrasse il dominio facebook.it o fb.com (nel caso in cui non siano stati già registrati, naturalmente) con il solo scopo di cederli alla società di Mark Zuckerberg e ricavarne un sostanziale vantaggio economico, quell’utente starebbe compiendo un atto di cybersquatting denominato domain grabbing.
I cybersquatter mettono in atto diverse tecniche per raggiungere i propri obiettivi economici. Si può aspettare che la registrazione di un dominio web arrivi alla sua naturale scadenza. Di solito, infatti, la registrazione di un dominio ha la durata di un anno dalla data di acquisto e deve essere rinnovata dietro pagamento di un canone. Cosa succede a questo punto? Se il legittimo proprietario dimentica di effettuare il pagamento, il cybersquatter lo acquisisce e cerca di rivendere il dominio web al precedente possessore che ha tutto l’interesse, economico e di brand awarness (ossia di “notorietà del marchio”), nel conservare lo stesso indirizzo per essere raggiunto dai propri utenti su Internet. Non solo. Tra i cybersquatter c’è anche chi utilizza dei programmi sviluppati ad hoc per scandagliare la Rete e i registri web alla ricerca di domini in scadenza, sui quali avventarsi come avvoltoi in attesa di una preda.
Caso pratico
Circa un anno fa un caso di cybersquatting ha conquistato i titoli delle prime pagine dei giornali e dei telegiornali italiani. Era infatti accaduto che chi si occupava di gestire i domini Mediaset avesse dimenticato di rinnovare l’abbonamento annuo per il sito mediaset.com. Un paio di settimane dopo il signor Didier Madiba, un anonimo cittadino statunitense originario dello Stato del Delaware, lo aveva registrato a suo nome per vendere dei media set, ovvero dei dispositivi per la registrazione in formato digitale di programmi televisivi. Quando a Cologno Monzese si accorsero della dimenticanza, era ormai troppo tardi. Per dare indietro quello che ormai era il “suo” sito, il signor Madiba chiedeva un ingente esborso economico, cosicché Mediaset fu costretta a rivolgersi al Tribunale Civile di Roma per avere indietro quello che l’azienda ritiene essere una sua proprietà.
Per il Biscione l’avventura, però, non si è conclusa bene. Nonostante la sospensiva del Tribunale romano, la camera d’arbitrato del WIPO (World Intellectal Property Organization) Arbitration and Mediation Center ha deliberato a favore del signor Madiba, sostenendo che le parole media e set sono molto comuni e usate spesso in abito tecnologico. Il loro utilizzo, quindi, non può essere a esclusivo appannaggio di una sola società, tanto che in questo momento digitando l’indirizzo mediaset.com si arriva a un messaggio di errore.
La legge
In Italia, al momento, non c’è alcuna legge che regolamenti il cybersquatting. La giurisprudenza, per difendere i diritti dei legittimi proprietari dei siti web “trafugati”, fa riferimento a due norme preesistenti. La prima è quella del Diritto al nome, garantito dall’articolo 7 del Codice Civile (la persona alla quale si contesti l'uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne fanno, può chiedere la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni) e alla normativa dei marchi e dei segni distintivi (articoli 2569-2574 del Codice Civile; Decreto del Presidente della Repubblica dell’8 maggio 1948, n. 795; Decreto Legge 480/1992; Decreto del Presidente della Repubblica 595/1993; Decreto Legge 189/1996).
Con l’applicazione di queste due norme, il legittimo proprietario di un marchio registrato (o, nel caso in cui non fosse registrato, che abbia sufficiente notorietà e possa essere ricondotto senza ombra di dubbio a una persona) può arrogarsi il diritto di servirsene in maniera esclusiva, anche per la registrazione del dominio web.
Negli Stati Uniti, il cybersquatting è invece regolato da una legge apposita. Nella nazione dove Internet è nato e si è evoluto, i casi di furto di dominio sono tutt’altro che rari e il Congresso è dovuto intervenire per mettervi un freno. Il 29 novembre 1999 è stato così approvato Anticybersquatting Consumer Protection Act, una legge che prevede pene pesanti per chi registra domini web riconducibili a marchi registrati con la sola intenzione di rivendere quel dominio al proprietario del marchio stesso.