Nel periodo d’oro dell’informatica “commerciale” (quello iniziato, più o meno, a metà anni ’90) la differenza nella velocità di lavoro tra disco rigido e RAM era uno dei problemi che maggiormente angosciava gli ingegneri e i produttori di hardware. Mentre gli hard disk sono basati su una tecnologia meccanica che richiede anche per i modelli più avanzati tempi di accesso stimabili nell’ordine dei 5 millisecondi (millesimo di secondo); la RAM è invece un componente informatico funzionante con stimoli elettrici, senza alcuna parte costitutiva di natura meccanica in movimento e con tempi di accesso nell’ordine dei nanosecondi (miliardesimo di secondo). Tra le due componenti hardware, quindi, veniva a crearsi un collo di bottiglia con effetti deleteri sulle prestazioni generali del computer. Come risolverlo? La risposta arriva dai dischi SSD.
Negli anni, infatti, si è cercato di sviluppare una tecnologia che permettesse ai dispositivi d’archiviazione di massa di unire le migliori caratteristiche degli hard disk (grande capacità di archiviazione, bassi costi e salvataggio permanente dei dati) con quelle delle memorie ad accesso casuale (altissime velocità di lavoro e assenza di parti meccaniche). La sintesi di questa ricerca sta in una sigla: SSD ossia Solid State Disk (disco a stato solido).
Nonostante il nome, i dischi SSD non sono dei veri e propri dischi in quanto non contengono e non sono basati su parti rotanti sulle quali vengono salvati i dati. Il nome dischi viene utilizzato solo per analogia con gli hard disk ma la loro struttura interna è completamente differente da questi ultimi. Un disco a stato solido è composto da una matrice di semiconduttori che svolge la stessa funzione di archiviazione che i dischi hanno in un normale hard disk. Ciò permette di ridurre, e non poco, i tempi di accesso alla cella dove sono salvati i dati. Non esistono, infatti, vari dischi disposti su più strati e una testina che, mossa da un piccolo motorino elettrico, va alla ricerca della cella di salvataggio dove sono archiviate le informazioni necessarie in quel momento, ma la ricerca e l’accesso alla cella sono praticamente immediati. A differenza degli hard disk elettromeccanici, un disco a stato solido ha tempi di accesso nell’ordine dei microsecondi (milionesimo di secondo), permettendo così di velocizzare le operazioni di analisi, lettura e scrittura dei dati tra RAM e dischi di archiviazione. Per il resto, però, i dischi SSD somigliano molto agli hard disk: grande capacità di archiviazione, non volatilità e stessa interfaccia di collegamento con la scheda madre.
La storia dei moderni dischi a stato solido inizia a metà degli anni ’90, quando alcune startup statunitensi iniziarono a produrre dei dispositivi di archiviazione di massa basati su memorie NAND flash. Si tratta di tipologie di memoria a stato solido non volatile (i dati restano salvati anche se viene interrotta l’alimentazione elettrica) composte da un numero altissimo di transistor. I transistor, ognuno die quali ha il compito di archiviare un bit di informazione, hanno la capacità fisica di mantenere la carica elettrica per un lungo periodo e, di conseguenza, i dati archiviati non scompaiono ogni qual volta l’alimentazione elettrica viene interrotta.
Ogni disco SSD è dotato di un controller (costituito da un microprocessore) che ha il compito di controllare tutte le operazioni del supporto di archiviazione e di interfacciarlo con le restanti componenti del computer.
Inizialmente questi supporti di archiviazione erano pensati soprattutto per l’industria militare e aerospaziale, dove la prestazione delle componenti informatiche era molto importante e non si badava troppo ai prezzi. I costi di produzione di questi dischi, infatti, erano (e sono tuttora) molto alti e non alla portata dell’utente medio.
Nonostante il calo nei prezzi registrato a fine 2012, il prezzo dei dischi SSD è ancora 7 o 8 volte superiore a quello di un normale hard disk. Per questo sono stati recentemente introdotti sul mercato i cosiddetti dischi ibridi. Si tratta di supporti di archiviazione nei quali troviamo sia i piatti magnetici rotanti e la testina di lettura (quindi le parti fondamentali dei normali HDD) che un quantitativo limitato di memoria a stato solido (tipica dei dischi SSD). I primi servono a conservare i file e i programmi installati, mentre la seconda svolge la funzione di “memoria di lavoro” intermedia, dove vengono caricati i file e i programmi utilizzati con maggior frequenza. Con questa soluzione si riescono a ottenere prestazioni simili a quelle dei dischi a stato solido a prezzi notevolmente più contenuti.
20 maggio 2013