Fino a oggi, siamo stati abituati a vedere i cyborg solo al cinema. Film come "Robocop" o "Io, robot" ci hanno fatto abituare all'idea che, un giorno o l'altro, i robot umanoidi faranno parte della nostra vita e, in qualche modo, influenzeranno la nostra cultura, il nostro modo di comportarci e i sistemi produttivi. Quel giorno, però, potrebbe essere più vicino di quanto si pensi: migliaia di persone in tutto il mondo, infatti, si interessano di bio-hacking e, grazie all'impianto di bio-chip sottocutanei, riducono sempre di più la distanza esistente tra l'uomo e la macchina.
La comunità internazionale di Grinder (ricercatori e scienziati che provano a migliorare il corpo umano con l'impianto di dispositivi cibernetici) cresce a ritmo costante, permettendo così di sperimentare dispositivi biohacking sempre nuovi e sempre più potenti. Se fino a qualche anno fa i biochip erano grandi come un chicco di riso ma con funzionalità estremamente limitate, oggi questi dispositivi possono essere utilizzati per avviare un'automobile, fare una chiamata telefonica o monitorare costantemente i parametri vitali di chi li "indossa".
Ciò, però, fa sorgere non pochi dubbi legati alla sicurezza: non solo il grinder potrebbe vedere messa a rischio la propria vita da parte di criminali comuni, ma pirati informatici potrebbero interessarsi alle sue "appendici" cibernetiche e tentare di hackerarle per impossessarsi dei dati contenuti al loro interno. Insomma, come fa notare Marco Preuss, Responsabile Europeo del team di ricerca di Kaspersky Lab, l'intero settore del biohacking ha bisogno di regole certe e standard condivisi che consentano di mettere un freno ai crescenti problemi legati alla sicurezza informatica dei biochip.
Sicurezza, allarme crescente
Al momento, non esiste un vero e proprio allarme legato alla sicurezza informatica dei biochip. Questi dispositivi, per quanto avanzati, hanno potenzialità e funzionalità ancora molto limitate: il loro SoC non è in grado di processare una grande quantità di dati, le loro capacità comunicative sono limitate e l'alimentazione resta un grosso ostacolo ancora da superare. Problemi, però, che sembrano possano essere risolti nel giro di pochi anni: per questo sempre più esperti di sicurezza informatica iniziano a interessarsi alla protezione dei dati collezionati dai novelli cyborg.
Non appena i biochip saranno utilizzati a mo' di documenti di identità o per portare a conclusione transazioni finanziarie, fa notare Marco Preuss, si scatenerà una vera e propria corsa agli armamenti e sarà necessario farsi trovare pronti.
Cifratura necessaria
Non appena si troverà il modo di risolvere i problemi di alimentazione dei biochip, così da aumentarne capacità, funzionalità e portata, sarà necessario pensare a dei protocolli e algoritmi crittografici che consentano di proteggere le informazioni che conserveremo all'interno del nostro corpo e quelle che scambieremo con l'esterno. I biochip, infatti, permetteranno di archiviare informazioni direttamente sul supporto tecnologico: sarà come avere una chiavetta USB sempre con sé, senza timore di poterla perdere.
Per evitare che i dati personali finiscano (anche involontariamente) nelle mani sbagliate, si dovranno mettere in atto delle pratiche e implementare tecnologie che, da un lato, consentano la crittografia dei dati e delle comunicazioni e, dall'altro, permettano di condividere e scambiare dati solo con i corretti destinatari a seconda del tipo di informazione trattata. Il nostro medico di famiglia, ad esempio, non avrà bisogno di avere accesso anche alle nostre informazioni finanziarie quando dovrà prescriverci uno sciroppo per la tosse mentre il nostro consulente fiscale non avrà la necessità di conoscere la nostra cartella clinica per aiutarci a decidere come investire al meglio i nostri risparmi.
Attenzione ai virus
La crescente potenza dei biochip, però, porta con sé anche altri problemi: non solo saranno in grado di archiviare una quantità maggiore di dati, ma potranno anche essere infettati da malware creati appositamente. Anche in questo caso, bisognerà farsi trovare pronti: il rischio è di restare infettati, magari diventando a nostra volta veicolo dell'infezione digitale, e mettere in grave pericolo tutti i dati personali presenti all'interno dei nostri bio-chip.
Una possibile soluzione, ancora in fase di studio e test, è rappresentata dalla possibilità di impiantare dei chip biologici anche all'interno di dispositivi "non viventi" come smartphone, notebook e altri device connessi, con lo scopo di proteggere i biochip presenti all'interno dei corpi delle persone. Dal momento che i dispositivi informatici sono già dotati di protezioni efficaci dai software nocivi (ad esempio tramite gli antivirus gratis per computer e gli antivirus per smartphone, oltre che grazie agli anti malware), potrebbero agire da "argine" alla diffusione di infezioni informatiche anche all'interno del corpo umano, evitando così che i grinder si trasformino in più o meno inconsapevoli untori di infezioni digitali.
E la privacy?
Il biohacking, una volta trasformato in un fenomeno culturale su ampia scala, potrebbe portare con sé anche problemi legati alla difesa della privacy. Ad esempio, come potremmo giudicare una madre apprensiva che sfrutti la geolocalizzazione dei biochip per monitorare gli spostamenti dei figli? Oppure, cosa potrebbe accadere se un medico utilizzasse questi dispositivi per monitorare indiscriminatamente gli stili di vita dei suoi pazienti? E se fosse il datore di lavoro a impiegarli per monitorare l'impegno dei suoi dipendenti?
Insomma, come ogni nuova tecnologia che si affaccia sul palcoscenico mondiale, anche il bio-hacking porta con sé problematiche tutt'altro che secondarie. Per questo è necessario, sin da ora, trovare una soluzione che consenta alla ricerca in questo campo di proseguire, assicurando, allo stesso tempo, un modo per garantire la sicurezza personale e informatica di quei grinder che decideranno di impiantarsi dei biochip in corpo.